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Codici di condotta, lo strumento per un’Italia a prova di data economy

L’Italia ha un rapporto privilegiato con i codici di condotta, ora previsti dal GDPR. Si tratta di un vantaggio competitivo che deve essere massimizzato: la concentrazione di complessità nelle nuove sfide portate dall’economia dei dati rende necessario di affidarsi a strumenti elastici e al tempo stesso tutelanti

di Rocco Panetta

Così come accade per la cosiddetta “privacy”, anche nel riferirsi al fenomeno della “data economy” si rischia spesso di affidarsi troppo alla (necessaria) semplificazione linguistica, cadendo così in una (imprudente) banalizzazione concettuale. Il misunderstanding è particolarmente pericoloso quando si tratta di cogliere la dimensione onnicomprensiva e trasversale di questi concetti. Difatti, le nuove regole dettate dall’avvento della data economy non investono solo questa o quella componente del nostro vivere contemporaneo, ma hanno invero la capacità di condizionarli pressoché tutti. Occorre dunque dotarsi di strumenti di regolamentazione capaci di rispondere alle nuove sfide collegate al trattamento e alla valorizzazione dei dati personali e in grado di adattarsi alle esigenze peculiari di imprese e pubbliche amministrazioni secondo logiche flessibili e personalizzate.

Servono, insomma, abiti regolatori da cucire su misura. E a tale fine il miglior cartamodello ce lo offre il GDPR con i codici di condotta. Attorno a questo fondamentale meccanismo di autoregolamentazione ruota la seconda puntata di “Italia: focus data economy”, la serie di approfondimenti curata per questa testata e dedicata alle sfide che attendono il nostro Paese di fronte all’affermarsi dell’economia dei dati (ed inaugurata poche settimane fa con un focus sulla PA).

Per comprendere come e per quali motivi i codici di condotta sono lo strumento su cui puntare per un’Italia a prova di data economy sarà necessario prima di tutto ripercorrerne, seppur brevemente, la storia. Una storia che, come si vedrà, è soprattutto italiana.

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